Opinioni

I sofismi paradossali di Diego Fusaro

Foto di Sonia Capuccini (CaoS Photo)

 

«Non domandate a chi vi ascolta se concorda assolutamente con voi; domandategli se procede nella stessa direzione».
(Goethe)

Il sofisma turbo-idealista di Diego Fusaro, applicato ad un testo come «Imagine» di Lennon, ha aggiudicato all’autore la palma d’oro del solipsismo e della paranoica demonizzazione di ciò che è spacciato come il nemico, sebbene il deliquio settario non intraprenda – o quantomeno non ancora – il linciaggio del dissidente. Il paggio fideista del pensiero unico marxista sembra affetto dalla stessa logica di quei sistemi ideologici che non tollerano l’ambivalenza del mondo, a tal punto da idealizzare la scomparsa delle contraddizioni dalla realtà – in altre parole la differenza – come riflesso perfetto di una speculazione off-limits. La posizione del chierico Fusaro si presenta quindi come il distillato di una proiezione ideale dell’identità, messa in gioco in ogni occasione, nei termini della negazione di tutto quanto non si allinea al culto marxista come fosse la verità rivelata o il sancta sanctorum delle sacre scritture. Tutto infatti dev’essere omologato ad un unico pensiero, tanto da ridurre l’uomo ad una sola dimensione.

La canzone di Lennon, che ha fatto da sfondo all’immaginario della contestazione, parla dell’immaginazione che si spinge oltre le barriere degli stati-nazione, disposti a farsi guerra sacrificando come carne da cannone quanto ogni potere ha sempre sacrificato, ossia la vita degli umili e degli oppressi. Tuttavia, per quanto l’immaginazione ideale di Lennon non faccia altro che prefigurare l’utopia di un mondo riconciliato nell’unità e senza più confini, l’egoinomane Fusaro vuole a tutti i costi leggervi l’acclamazione del global-capitalismo senza frontiere e la prefigurazione del dominio unico di “monsieur le Capital.

Ma a leggere con attenzione c’è qualcosa che non torna in questa logica paradossale che, posta in questi termini, si presenta in realtà più come un sofisma. La domanda che infatti sorge spontanea è… Come mai l’ideale di un’umanità riconciliata e l’idea d’internazionalismo come superamento dei confini, che da sempre sono motivo di guerra, diventano così sospetti se a parlarne è Lennon, mentre se a parlarne è un funzionario di parte – sebbene in assenza di un partito, bisogna riconoscerlo – queste parole funzionano invece come sinonimo della sintesi dialettica della storia, tritatutto attraverso cui il chierico scompone e ricompone la realtà per adattarla meglio al suo desiderio?

La concezione dell’impossibilità del comunismo in un solo paese diventa così lo stratagemma escogitato dall’illuminato al fine di concepire l’interesse nazionale e la sovranità monetaria di tutti i paesi come il raccordo per la costruzione di una sensibilità e di una coscienza cosmopolita grazie a cui far rientrare dalla porta lo stesso spettro che poco prima aveva fatto uscire dalla finestra (ossia l’idea di riconciliazione nel principio di unità di cui Lennon parlava in «Imagine»).

A differenza di quanto il chierico vuol farci intendere, però, il testo di Lennon si presenta più semplicemente come quell’unità ideale che già il «Manifesto del partito comunista» recitava nello slogan… «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Da qui il paradosso secondo cui, sebbene Lennon dica la stessa cosa cui sembrava aspirare anche Marx, Lennon finisce per avere torto, mentre il prestigiatore Fusaro, in linea con l’epurazione leninista degli infedeli, si aggiudica la sua bella patente di nobiltà.

Non deve quindi sorprendere la doppiezza dell’egoinomane in questione, perché questa è sempre stata una qualità a cui ogni buon marxista che si rispetti ha dovuto piegarsi per mantenere in piedi l’impalcatura teorica. Si vedano pure tutte le mascherature di cui si è ricoperto il fascismo rosso (detto anche comunismo) e la fede assoluta nello stato totalitario con cui fin troppo sbrigativamente, quanto imprudentemente, si è liquidata una questione come quella della necessaria dittatura di transizione che, in quanto a vittime, non ha molto da invidiare a quelle seminate del fascismo. Infatti, fedele al sistema ideologico del suo signore, l’oppio filosofico del prodigioso emissario di Marx punta a farci intravedere l’anticapitalismo, all’interno del capitalismo, quale operazione demiurgica – ma nondimeno demagogica – di un programma a breve termine, senza tuttavia spiegarci il superamento dello stesso capitalismo al solo scopo di vendersi meglio sul mercato del desiderio come la migliore immagine della differenza.

Il sofisma paradossale assolve allora la funzione di scotomizzare, cioè di ricoprire la prospettiva negativa e distopica che ha sempre contraddistinto tutta la letteratura marxista con filosofiche panoplie. Non vi è infatti né in Marx né in Lenin né in nessun altro che muovesse dai presupposti del collettivismo burocratico un programma positivo di come costruire il comunismo. Quello di cui si dispone è solo la definizione della società socialista in antitesi al capitalismo, tanto che si può a ragione considerare – come ben precisa il sociologo dei fenomeni rivoluzionari Luciano Pellicani in «Miseria del marxismo», a cui tra l’altro devo ogni riferimento sull’argomento – che quando si consideri, ad esempio, che cos’è il comunismo, la risposta di Korsch fu che il comunismo consisteva nel rifiuto dell’esistente, momento in cui la stessa abolizione della proprietà privata si connota negativamente e la socializzazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato, poiché si definisce in termini di distruzione del capitalismo, non ha comunque un’accezione positiva, in quanto la distruzione della logica della domanda e dell’offerta si ripropone come teoria negativa e dunque come prospettiva distopica.

A partire da Saint-Etienne – il quale proclamò che il solo programma rivoluzionario dei giacobini era «tutto distruggere per tutto rifare a nuovo» –, fino ad arrivare a Marx – che oltre al fatto di essere stato soprannominato il nuovo Marat, definisce tra l’altro il comunismo come la negazione della negazione e decreta che il capitalismo è destinato a finire per via di una fatale necessità storica –, il dinamismo di questa ideologia non è che una pura passione nichilistica a cui tutti i chierici della mistica hegelo-marxiana si abbeverano, sicuri di essere nel vero per il fatto stesso di recitare fedelmente i sacri testi dei Padri fondatori.

Nella dialettica hegeliana, infatti, al polo positivo si oppone la distruzione come polo negativo, il quale tanto necessariamente, quanto provvidenzialmente, apporterà un miglioramento delle condizioni di partenza per effetto della stessa sintesi del moto dialettico. Insomma: una logica tautologica, perché la tesi secondo cui radere al suolo il presente capitalistico diventa la precondizione che assicura un futuro di rango superiore rappresentato dal comunismo è certamente esatta in termini filologici. Secondo la teodicea hegeliana – così come lo stesso Hegel ebbe a definire il suo sistema – questo modo di procedere è perfettamente congruente con sé stesso; ma solo con sé stesso, appunto, non con il decorso della storia e quindi con la realtà che è così mascherata di razionalismo. Si spiega altresì come il chierico Fusaro possa procedere sicuro di essere sulla giusta strada che lo porterà a farsi il vero e valoroso interprete del mantra marxiano, grazie al quale tutte le contraddizioni si risolvono, mentre in realtà non fa altro che ripetere un copione che funziona da revival mitologico.

Il profetismo di cui è intriso il pensiero dell’illuminato sembra prendere a prestito le parole di Cristo, quando disse… «In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano compiute» (Matteo, 24, 34), una frase rispetto alla quale un titolo come «Il futuro è nostro» che il chierico Fusaro ha scelto per uno dei suoi libri sembra solo fare da eco. Un profetismo che nondimeno ritroviamo nella chiaroveggenza dialettica di Hegel e nei pronostici messianico-rivoluzionari di Marx, passando dall’idealismo di Gramsci a quello di Gentile, lungo tutta la galleria dei santi in grado di prevedere il decorso della storia non soltanto a partire dalla logica dialettica ingaggiata come fosse una sfera di cristallo, ma addizionandovi il fattore soggettivo e dunque politico come richiamo ad un fattore che attiene alla volontà ideale.

Tuttavia, sebbene il capitalismo sia arrivato a un punto tale di saturazione dei mercati ed abbia creato quelle condizioni essenziali per la formazione della coscienza di classe quale requisito necessario per lo scatto rivoluzionario, del comunismo in quanto risolto enigma della storia, malgrado le previsioni di Karl Marx, in realtà non vi è ancora alcuna avvisaglia. Ma tutto questo non importa perché, infatuato di sé, l’egoinomane è disposto a vendere fumo scrivendo libri demagogici e fin troppo felici dai quali è possibile desumere l’illusione esemplare, così come l’esemplare generalizzazione, indicativa di un certo scollamento dall’esame di realtà. Quando infatti il chierico Fusaro usa il termine “nostro” riferendosi al “futuro” cui inneggia il titolo del suo libro, la domanda che viene spontanea è… Ma nostro di chi? Forse di quella sparuta fetta di marxisti apolidi e senza partito? La ragione di questo inganno la si può rinvenire nello stesso autoinganno in cui il filosofo taumaturgo finisce per ricacciarsi puntualmente, ossia in quella doppiezza che nell’ostentazione dell’interesse pubblico bisogna che non lasci trasparire la ricerca della distinzione come sottostante interesse privato – individualistico ed egoistico – che è possibile definire come il non pensabile.

Fa poi sorridere che il fine stillicidio, con cui il chierico Fusaro camuffa i propri desideri onnipotenti, approdi invece ad un credito conferito ai due partiti di governo che, oltre ad essersi distinti per il fatto di riscuotere un largo risentimento sociale, i rispettivi leader possono vieppiù qualificarsi non soltanto in quanto carenti di una cultura accademica in generale, ma in quanto mancanti di identità politica in particolare. Un credito che può spiegarsi solo in quanto, viziato dalla visione neo-ideologica che coniuga idealismo e marxismo, finisce per accomunare destra e sinistra contro l’unico grande nemico (la grande finanza), al fine di fare dei due leader dell’attuale governo i paladini di un teatro politico che, non diversamente da quello che fa il filosofo da salotto glamour, punta ad orientare il consenso a proprio favore.

Ma ritornando a Lennon e alle invettive turbo-idealiste del filosofo da talk-show, quello che bisogna dire è che la sua aspirazione d’incarnare l’unico pensiero (marxista) contrapposto al pensiero unico (capitalista) si presenta come un gioco di specchi da cui lo stesso giocatore, per quanto abile, finisce giocato. Così come la recita monotona del mantra marxista fa sì che non sia più l’intransigenza di Fusaro a parlare ma sia questi ad essere parlato per effetto di un dettato ipnotico, ecco che nell’immaginario persecutorio del chierico anche Lennon finisce col figurare come il nemico.

Se il ripetitore fedele del vangelo secondo Marx si autocompiace di affibbiare lo stigma di dissidente o controrivoluzionario, sparando a zero contro tutto il pensiero unico dominante e nondimeno contro la stessa servitù volontaria, è perché nei confronti di chi diverge dal suo unico pensiero non c’è che la scomunica e l’anatema di essere servo della finanza. La sentenza della pretesa idealistica di «serrare in un sistema chiuso tutta la realtà e di pretendere di spiegare ogni cosa con formule onnicomprensive» (L. Pellicani, «Antropologia ed etica di Ortega Y Gasset») diventa la formula magica prêt-à-porter di cui il filosofo a caccia di audience si fa spettacolare dispensatore; il che, come ognuno può constatare da sé, è un modo di procedere del tutto simmetrico alla posizione ideologica assunta dal suo antagonista (il pensiero unico capitalista), rispetto al quale il filosofo delle sante omelie intende prendere le distanze assumendo la logica paradossale ed il sofisma come proprietà eccellenti del suo pensare altrimenti.

Da qui la fondazione dello schema amico-nemico proprio della paranoia primaria che, in termini psicoanalitici, a partire dalla vicenda drammatica del parto-nascita, entrerebbe in scena nella stessa costituzione immaginaria del collettivo. In altri termini, la logica della contrapposizione non fa che riprodurre la dicotomica griglia marxiana di lettura del mondo, la qual cosa s’impone alla coscienza ideologica come codice privato che fa incorrere il filosofo-missionario in un’eclatante contraddizione con quella stessa vulgata totalitaria che vorrebbe invece confutare. Ecco allora spiegato perché la coerenza – così come ebbe a dire Mises in “Socialismo” – non è proprio la qualità di un marxista.

In alternativa a questa visione manichea e marxcisista – neologismo che coniuga marxismo e narcisismo, tenendo ben presente che i più grandi sistemi dittatoriali sono stati sostanzialmente delle egocrazie, cioè delle tirannie incentrate sull’io assoluto dei loro leader –, la lettura psicoanalitica dei codici affettivi di Franco Fornari può invece fornire una spiegazione dell’intera contestazione come uno spostamento sul sociale dei conflitti intrafamiliari. In termini psicopolitici, la devianza che assume le sembianze impolitiche della rivolta generazionale – l’orgasmo, le visioni mistiche, la musica e la droga – quali esperienze transazionali di tipo compensatorio al contesto familiare affettivamente carenziale, potrebbe infatti spiegare la motivazione che ha finito per indurre nei giovani del ‘68 il senso di disorientamento, l’insicurezza e l’angoscia quale miscela che ha poi assunto la forma della spavalderia e della sfida nei confronti delle istituzioni capitalistico-borghesi come la famiglia, la scuola, l’università e la società mercantile.

Il tentativo di espellere il nucleo depressivo che a seguito di una deficitaria esperienza affettiva all’interno del contesto familiare ha mobilitato i giovani nel senso della contestazione, può secondo Fornari aver rappresentato un modo per colpire provocatoriamente la società dei generanti, suscitando in loro quello stesso senso di smarrimento e perdita affettiva che i generati sentivano di patire innocentemente. Il testo della canzone «Imagine» di Lennon, solo che si analizzi in termini di simbolizzazione affettive del contesto e non secondo la versione autistica del turbo-idealismo neo-marxista di Fusaro, sembra in sintesi prefigurare un immaginario in cui non vi siano più impacci all’attingimento onnipotente del principio di piacere, ossia senza più la mediazione della famiglia o i conflitti che fanno parte del principio di realtà.

Ciò nonostante, questo è solo il transfert dell’attacco e del rifiuto di una generazione deviante a cui ha fatto seguito il controtransfert dei “benpensanti”, da cui deriva che anziché una risposta riparatoria vi sia stata, al contrario, una risposta che non ha saputo accettare e contenere il disagio depressivo e la turbolenza dei figli. Quasi che la contestazione avesse funzionato come il Super-Io critico che mette sotto accusa la società (dei genitori) incapace di corrispondere alle mutate esigenze affettive della nuova generazione (i figli) e come se dal Super-Io di questa stessa società di genitori la contestazione dei figli venisse a sua volta perseguitata (vedi pure F. Fornari, «Principio del piacere e principio di realtà nel fenomeno “beat”»). In termini fornariani si potrebbe a questo punto dire che «mentre il marxismo fa appello alla potenza rivoluzionaria, la psicoanalisi vede nell’onnipotenza qualcosa di cui è necessario accettare la perdita, per arrivare alla liberazione dal male attraverso l’accesso al reale» (F. Fornari, «La malattia dell’Europa»).

Ma poiché il sogno dell’egoinomane fa tutt’uno con il sogno del marxismo, che è poi non tanto quello della rivoluzione quanto quello dell’onnipotenza mitologica dell’io – sebbene le due cose non siano poi così in contraddizione –, ciò che conta non è altro che quello che il proprio essere riesce a concepire come manifestazione di un essere d’eccezione, in cui riuscire a figurare come il giusto erede, il figlio legittimo, l’ultimo imprenditore del sogno di Marx.

In conclusione, allo scopo di ricambiare l’attenzione che a torto il chierico Fusaro ha inteso dedicare al testo di Lennon, servendosi delle desuete categorie pan-idealistico-marxiste – la cui de-affettivizzazione del sociale appare come un meccanismo di difesa a cui corrisponde un’armatura caratteriale razionalista –, invito a leggere qualche brano tratto dalle poesie del giovane Marx onde avvicinarci meglio alla questione sottostante, vale a dire quella dei codici affettivi come fondativi di una qualsiasi weltanschauung. Un fattore la cui matrice inconscia si può rinvenire tanto nel testo poetico o scientifico quanto nella produzione onirica, ma che il marxcisista fa a meno di approfondire (limitandosi a scimmiottare le sporadiche ripetizioni sull’evaporazione del padre o sul godimento illimitato di Massimo Recalcati) per non dover menzionare qualcosa che finirebbe per ridurre tanto l’immagine di Marx quanto la propria all’impotenza dell’infanzia.

Inoltriamoci dunque in questa seconda parte della critica all’oppio degli intellettuali – così come Raymond Aron ebbe a definire l’incantamento da questi esercitato – e lasciamo la parola al giovane Marx che attraverso i suoi componimenti poetici ci restituisce un’anteprima di quella passione di assoluto tanto funesta da concretarsi in una demiurgica visione del mondo.

«Mondi non possono appagare il mio anelito,
né lo può il potere magico di alcun dio;
superiore a tutti è la mia volontà
che nel petto veglia tempestosa.
Se potessi attrarre in me l’ardore di tutte le stelle,
la luce e il raggio di tutti i soli,
non sentirei appagate le mie audaci fatiche,
né soddisfatta la folla dei desideri.
Via, verso lotte e contese senza fine,
come un lontano talismano.
Un demone mi spinge verso lontananze e nebbiose,
ma non mi è dato avvicinarmi alla meta.

Il cielo tento di afferrare,
e il mondo a me di attirare,
e amando e odiando
a vivere in esausto vorrei continuare.
Tutto vorrei conquistare,
ogni bel favore degli dei,
e nel sapere, osando, penetrare
e il canto e l’arte afferrare.
Mondi interi vorrei distruggere a forza,
perché non posso io stesso creare,
perché non ascoltano il mio grido
ruotando muti nel magico incantesimo.

Se un dio tutto mi ha strappato,
travolto in maledizione sotto il giogo del destino
— rinunciare ai suoi mondi — a tutto — A tutto! —
una cosa mi è rimasta, la vendetta, sì, mi è rimasta.
Contro me stesso voglio vendicarmi con orgoglio;
contro quell’Essere, che là troneggia in alto;
sia pure la forza mia debolezza rabberciata
e sia pure il mio stesso bene senza premio alcuno.

Il guanto io lancio allor schernendo
a un mondo intero dall’ampio volto
e il nano gigantesco crolli gemendo,
il mio ardore non spengono le mie rovine.
Posso simile agli dei peregrinare,
vittorioso il suo regno di ruderi attraversare,
ogni parola e vampa e azione,
il mio petto simile al seno del creatore»
(K. Marx, «Poesie e saggi letterari giovanili», I, 578, 581, 620, e 623).

Grazie all’impianto hegeliano il salmodiare di Marx troverà la sua configurazione nell’immanentizzazione del regno, una formulazione in cui le leggi della dialettica funzionano come sostituto della provvidenza a cui la missione escatologica della classe operaia, guidata dagli interpreti della rivoluzione (vedi pure L. Pellicani, «I rivoluzionari di professione»), farà da compimento. Il punto di fuga di questa elaborazione psicologica di Marx è l’assunzione di un ruolo in cui il proprio interesse egoistico ed il benessere dell’intera umanità arrivino a coincidere nella propria persona, sì che questa si identifichi totalmente con una causa superiore e faccia del proprio pensiero una fortezza inespugnabile. Non a caso è lo stesso Marx ad osservare che «la storia considera come gli uomini più grandi coloro che, mentre operavano per l’universale, nobilitarono se stessi» (K. Marx, «Considerazioni di un giovane sulla scelta di una professione», I, pp. 5-6).

Siamo nei recessi della doppia coscienza, al livello della malafede, la quale è innanzitutto un autoinganno. Ora, più si fomenta il futuro di un’illusione nelle masse (l’inganno) e più si rende necessario un surplus di malafede (l’autoinganno). È così che, di fronte ad una condizione umiliante, vale a dire piena di vuoti ed esposta alla vulnerabilità del limite, si finisce per tentare la fuga nel miraggio – inteso come strategia di tipo onirico – e nella negazione della realtà. Ma leggiamo ancora un altro brano.

«Ah! Intrecciare mi devo alla ruota fiammeggiante,
per danzare nel cerchio di piacere dell’eternità!
Ci fosse fuori qualcosa che inghiottisse,
ci salterei dentro, dovessi fare a pezzi il mondo,
elevatosi fra me e quello!
Scoppiare, dovrebbe per l’immane maledizione,
le braccia allaccerei intorno al duro Essere,
e abbracciandomi dovrebbe essere mutuo svanire,
e poi giù, calar nel nulla,
totalmente sprofondare, non essere, sarebbe vita»
(K. Marx, «Oulanem», I, 659).

C’è in Marx, nella sua personalità come nella sua dottrina, un sotterraneo desiderio di distruzione del mondo e di esplosione del corpo (vedi pure J. Chasseguet-Smirgel, «Il corpo come specchio del mondo»). Un desiderio metafisico di assoluto che trova espressione nella reazione di rifiuto della propria finitudine, una frustrazione insopportabile per cui non potendo avere tutto, essere tutto e sapere tutto, ecco che non vuol più essere niente. Una tendenziale simpatia per il nulla che soltanto apparentemente sembra restituirgli la percezione di un surplus di vita inestimabile tale da innalzare il suo Ego, perché in realtà è soggiogato dal suo Super-Ego che gli impone di sacrificare l’intera sua esistenza alla causa dell’umanità, mentre l’impulsività dell’Es che lo spingeva a non voler più niente desiderare si estroflette nel dissidio con l’esistente. Il fine messianico-redentoristico costituirà così il superamento del soggiogamento nei confronti del Super-Ego, mentre la sublimazione della disposizione autodistruttiva costituirà il superamento della posizione depressiva nella definitiva dichiarazione di guerra al dio Mammona (il profitto).

La fine di quel mondo di valori cui Marx apparteneva decreta quindi lo sprofondare in una profonda crisi spirituale. Un vuoto che fa emergere l’angoscia di fronte all’impotenza e alla morte che Marx presentifica in maniera drammatica. Diventa dunque imperiosa l’esigenza di fare qualcosa per esorcizzare questo panorama da fine del mondo sostituendolo con una speranza che funzioni da consolazione. La vita assume allora un senso soltanto se trasfigurata da una passione suprema, un fuoco in cui gettarsi per estinguere il tragico destino mortale attraverso la trascendenza di quel mondo capitalistico e borghese, ingiusto, viziato e corrotto che perciò bisogna estirpare dalle fondamenta. Discende da qui il pedigree filosofico dei sofismi rivoluzionari del marxismo, nonché i paradossi caratterizzati dalla malafede a cui le generazioni si sono abbeverate infatuandosi del proprio nulla.
E leggiamo ancora un ultimo brano:

«Un trono mi voglio costruire,
fredda e immensa deve essere la sua cima,
bastione gli sia brivido sovrumano
e suo signore sia la cupa pena!
Chi con occhio sano guardi in alto,
pallido mortalmente e muto torni,
da cieco alito di morte afferrato,
la felicità da sé si scavi la sua tomba»
(K. Marx, «Poesie», I, 620).

La tendenza a piegare tutto al suo potere assoluto fa perciò di Marx non soltanto l’ideologo della “società dei giusti” che più spesso tutti conoscono, ma il lugubre profeta di una volontà onnipotente di distruzione quale formula palingenetica da cui partorire il nuovo mondo a sua immagine e somiglianza che fin troppi ancora misconoscono.

Quest’ultimo brano tratto da «Oulanem», una poesia che niente ha da invidiare al pessimismo cinico di un E. M. Cioran, è animato da una hybris che nell’anagramma di Emanuele, nome biblico di Gesù, testimonia il fatto che simili inversioni di nomi sacri erano in uso presso i facitori di magia nera, a cui anche il giovane Marx ricorreva perché tali evocazioni e invocazioni placassero il suo spirito. Si può dunque leggere sin da questi suoi primi componimenti la presentificazione che un secolo più tardi prenderà forma nei gulag, metafora di un incubo in cui i fratelli all’interno della pancia della madre si fanno guerra, al termine della quale squarciano l’involucro per nascere, «mentre il sogno dell’Europa è un bel sogno che ha l’aria di dover nascere come necessità di uscire da un incubo». (F. Fornari, «La malattia dell’Europa»).

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Domenico Treccozzi

Domenico Treccozzi si occupa di critica sociale e più recentemente di Counseling rivolto alla persona, alla coppia, alla famiglia, ai gruppi ed alle organizzazioni. Interessato ad una lettura psicopolitica dei fenomeni culturali in genere, così come è stata formulata dalle teorizzazioni di Luigi De Marchi, è alla ricerca di un adattamento alla libera pratica del Counseling (di derivazione dalla migliore tradizione umanistica di Carl Rogers), secondo l'apporto integrato e strategico dei più recenti sviluppi nell'ambito della relazione d'aiuto.

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