Opinioni

Lo spettro del virus e della differenza

Foto di Sonia Capuccini (CaoS Photo)

La paura è la vera base e fondamento del mondo moderno.
A. Huxley

Uno spettro si aggira per il mondo. È lo spettro della paura. Paura di contrarre il virus, la malattia, l’isolamento e un’ondata barbarica di morte. L’attacco non proviene dall’esterno, questa volta il nemico attacca dal di dentro, nella forma virale della malattia e della morte divenute globali. Il dispiegamento reattivo-difensivo a questo attacco è simile a quello che si può immaginare in conseguenza di un’invasione bellica, ma poiché non si tratta di una guerra vera e propria, una risposta di questo tipo da parte delle istituzioni che giurano guerra al virus sacrificando la libertà di una parte della popolazione non può che risultare spropositata e anticostituzionale. La percezione diffusa è quella di una barca straripante, in piena crisi. Le stesse istituzioni non sembrano essere immuni da questa paura e adottano provvedimenti volti a suscitare una più estesa parvenza di sicurezza attraverso l’adozione di provvedimenti autoritari e discriminatori.

Infatti, sebbene le misure restrittive con cui le istituzioni cercano di indurre i renitenti al vaccino siano volte ad una riduzione del rischio di contagio, risentono tuttavia di una cattiva gestione dell’ansia delle stesse leadership politiche, le quali hanno unanimemente misconosciuto i dati epidemiologici secondo cui la virulenza di una pandemia comincia ad avere una curva discendente dopo i due anni, approntando una procedura massificata di vaccinazioni con farmaci ritenuti ancora sperimentali da una considerevole quantità di medici.

Lo spettro del virus ha così prodotto una differenza rispetto alla riemersione perturbante dell’angoscia di morte che ha contagiato l’immaginario quotidiano in termini di attenzioni scrupolose, di percezione ansiosa e di una distanza profilattica allarmata. Si può inoltre parlare di una compromissione dell’esame di realtà quando si trascuri di considerare che sono proprio i vaccinati ad essere più esposti a rapporti di vicinanza all’interno di luoghi in cui la frequentazione è consentita esclusivamente a chi è in possesso di un green pass, perché sono soprattutto questi ad essere allora tanto più a rischio nel veicolare ed estendere il virus rispetto a chi invece ha subito restrizioni che costringono all’isolamento. Questo ha avuto come ripercussione quello che in termini psicoanalitici viene definito uno splitting epistemologico, ossia una contrapposizione ideologica tra vax e no vax, due etichette che sintetizzano uno scenario tanto complesso quanto diversificato che è poi il riflesso di una divisione che ha preso forma all’interno della stessa comunità scientifica.

Da una parte vi è quindi la stigmatizzazione degli obiettori di coscienza, perché su di loro viene caricata la colpa di essere i portatori del virus (quando è ormai risaputo che abbassando la vigilanza e trascurando le misure precauzionali di sicurezza anche i vaccinati con la terza dose possono contrarre e trasmettere il virus), mentre dall’altra vi è il rifiuto di cedere all’autogoverno del proprio corpo come proprietà privata su cui si fonda il principio liberale. Di conseguenza i primi si mettono al sicuro ricorrendo al vaccino (o per meglio dire ad una serie di vaccini), mentre i secondi si cautelano da questa specie di roulette russa senza per questo rinunciare alle cure domiciliari precoci, avvertendo vieppiù l’ingiunzione a vaccinarsi come una prevaricazione del potere decisionale dell’individuo e del suo diritto privato di scelta. Apparentemente è tutto chiaro, se non fosse per il fatto che tra i due gruppi pare rimontare un’antica concezione del passato di tipo manicheo, secondo cui la colpa della diffusione del virus sarebbe degli obiettori di coscienza, quando invece chi non è vaccinato cerca di mettersi al sicuro da una serie di vaccini ritenuti ancora sperimentali, soprattutto in considerazione dell’insorgenza di effetti indesiderati a breve, a medio e a lungo termine.

Secondo quanto riferisce l’antropologa Mary Douglas (M. Douglas, Rischio e colpa, 1996) è possibile pensare che i membri di una comunità, dovendo farsi carico delle tensioni del vivere, adottino come tentativo di risoluzione delle conflittualità un meccanismo di attribuzione di colpe. Così, se prima era l’altro o il diverso a portare inscritti sulla propria pelle i segni della differenza e ad essere perciò stesso riconosciuto come nemico, nell’attuale situazione pandemica sono tutti gli altri, cioè gli obiettori di coscienza, ad essere percepiti come i nemici in quanto portatori di una differenza. L’individuazione di una categoria a rischio funziona come polarizzazione del risentimento su una minoranza considerata potenzialmente infestante. Ma non è tutto. L’aspetto soggiacente alla stigmatizzazione degli obiettori di coscienza è relativo al fatto che il rifiuto del vaccino evoca un’ulteriore rappresentazione, quella di un’incognita riferita al fatto che gli stessi vaccini possano costituire una debilitazione irreversibile e le cui conseguenze possono essere infarti, miocarditi, malattie autoimmuni, tumori e una compromissione del sistema immunitario.

Da qui il bisogno di certezza per via dell’ambivalenza derivante dalla «complessità indesiderabile del mondo» (R. Escobar, Metamorfosi della paura, 1997), un’operazione che si sta profilando con l’estromissione dal sociale della categoria considerata a rischio per il resto della comunità (proprio come quando si amputa un arto dal corpo per salvare la vita o come nei riti sacrificali si esorcizza la crisi nella messa a morte rituale della vittima sacrificale). I sentimenti di benevolenza distinti da quelli di malevolenza possono così investirsi su due oggetti diversi (si veda pure F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, 1979) conferendo ai vaccinati un senso di appartenenza ed espellendo gli obiettori di coscienza dalla vita sociale.

Su un piano immaginario si può dire che «uccidere i portatori di malattia e degenerazione, come uccidere i batteri o i virus, è un esercizio al servizio e a supporto della vita. In esso non si vede un omicidio, ma un modo per salvare la vita» (Z. Bauman, La società dell’incertezza, 1999). Il sistema di difesa pensato dalle istituzioni è dunque quello dell’attacco alla categoria individuata a rischio come garanzia della sopravvivenza della comunità, da cui deriva la mobilitazione nei confronti di chi non aderisce alla formula salvatutti del vaccino, su vaccino, su vaccino… Siamo di fronte ad una vera e propria sindrome dell’esclusione come reazione al pericolo della malattia che a tutti i costi dev’essere neutralizzata, ignorando le conseguenze disastrose che potrebbero prospettarsi con l’eliminazione del gruppo di controllo.

E così va a finire che il vaccino diventa una specie di ideologia (quella vaccinista, appunto) che oltre ad immunizzare questi ferventi credenti rispetto alla possibilità di dubitare delle proprie certezze, produce diffidenza nei confronti dei portatori della differenza. L’aspetto ideologico si carica quindi della concentrazione di tutto il bene da una parte (noi) e di tutto il male dall’altra (loro) attraverso un’operazione di demonizzazione. È in questo senso sufficiente organizzare una campagna persistente, in cui la dicotomia tra vaccinati e obiettori di coscienza faccia apparire questi ultimi come i soli untori che attentano al legame della comunità, perché la credenza nel vaccino come garanzia preventiva s’insinui in quanto verità totalizzante. A partire da qui si alimenta un collante sentimentale tra gli appartenenti ad una stessa comunità in contrapposizione a quanti sono stati individuati come i nemici, da cui deriva che i concetti antropologici di purezza e pericolo sono all’occorrenza riabilitati riproducendo mentalmente compensazioni rivendicative allo scopo di erigere confini più sicuri (si veda pure F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, 1979).

Il meccanismo di attribuzione di colpa di cui parlava M. Douglas lo si può leggere inoltre nel pretestuoso ed indiziario etichettamento di “narcisisti” inflitto agli obiettori di coscienza, proiezione del proprio narcisismo che i vaccinisti preferiscono vedere unicamente in chi si fa portatore della libertà individuale intesa come differenza. Invero, poiché agli obiettori di coscienza è stato impedito di usufruire dei trasporti e degli esercizi pubblici, è possibile pensare che la corsa al vaccino come panacea della pandemia sia da attribuire più alla vetrinizzazione del proprio io o al limite al cedimento ad una logica ricattatoria che non alla bell’anima di chi vuol vedere solo un interesse etico nei confronti della comunità.

Questo mondo in cui cose e persone non sono che equivalenti generali, disponibili sul mercato del desiderio per essere consumati nella loro apparenza, corrisponde in realtà ad una finzione. Una grande simulazione il cui compito principale è quello della dissimulazione dell’angoscia di morte e il rilancio del godimento nello shopping, dell’ideologia dell’elisir di lunga vita, della chirurgia estetica e dell’estetica dei corpi (come il lifting, il body building, i tatuaggi e i piercing), nonché della rivoluzione scientifica, medica e mediatica come estensione del proprio io onnipotente alle prese con possibilità virtuali. Questo regno immaginale dell’estasi della comunicazione e del cybergspazio è improvvisamente collassato per via di un’invasione barbarica di morte come catastrofe della dimensione illusionale.

Un’implosione di senso ha così catapultato l’immaginario comune – che è poi quello del gioco, della seduzione e dello spettacolo o, in una parola, del consumo sterminato in quanto fattore del godimento – nella realtà terminale della scadenza del tempo, della debilitazione e del corpo come materia organica da sottoporre ad esami, monitoraggio e terapie. Si preannuncia così la fine dell’epoca dell’abbondanza, il che significa che alla cosmetica edonistica si sostituisce un mondo luttuoso che non può più essere investito di desiderio (d’altra parte è ormai risaputo che ogni generazione ha la sua bella apocalisse porzione singola). La pandemia si configura allora come l’irruzione del disincanto evenemenziale della morte e la fine dell’incanto della vita che la post-modernità ha fin qui rappresentato, precipitando la comune sensibilità prima nell’ansia, poi nella vulnerabilità e infine nella depressione.

Il desiderio di un’appropriazione onnipotente della verità induce così ad assumere un atteggiamento ideologico, il che significa che da una parte vi è la vera dottrina, mentre dall’altra vi sono gli eretici. All’ideologia fa quindi da contralto l’eresia, il cui significato originario, in verità, sta per “scelta” o condizione in cui l’uomo può ancora scegliere. Secondo questa versione le manovre restrittive ed autoritarie sono presentate come misure imposte dalle istituzioni loro malgrado, quasi come se non vi fosse altra possibilità di scelta per risanare la situazione di crisi. L’abuso della legge che sta prendendo forma sotto gli occhi di tutti, indicativo della perversità delle stesse istituzioni, si compie in maniera esplicativa in quella battuta di Hegel che si può adattare perfettamente all’attuale situazione generale, secondo cui se i fatti non coincidono con la teoria, tanto peggio per i fatti, soprattutto in considerazione della circostanza che i fatti di cui si tratta sono i fatti degli altri: quindi tanto peggio per questa minoranza di dissenzienti.

Ma poiché la vaccinazione si presenta come un pharmacon – e cioè come rimedio e veleno allo stesso tempo –, l’immagine mitica dello Stato che per debellare il virus attacca le libertà individuali ha bisogno di un salvancondotta che confermi la ragione superiore dell’istituzione il cui interesse è l’esclusivo bene della comunità. Soltanto conferendo un’aura di legittimità al proprio operato sarà possibile cancellare l’idea che vi sia stato un abuso di potere da parte dello Stato, in quanto il discorso della verità inconfutabile della scienza non regge più (posto che anche nella scienza non c’è niente che non possa essere confutato, perlomeno secondo quanto sostiene Popper e l’epistemologia in generale). Pertanto, si può dire che il rifiuto di tollerare questa differenza degli obiettori di coscienza ha a che fare col fatto che un atteggiamento di questo tipo «tende narcisisticamente e onnipotentemente a porre il desiderio e la sua simbolizzazione privata come normativa per tutti» (F. Fornari, Simbolo e codice. Dal processo psicoanalitico all’analisi istituzionale, 1976).

Inoltre, sempre sulla scia del meccanismo vittimario a cui più sopra ho fatto riferimento, è possibile leggere le restrizioni istituzionali che inducono alla vaccinazione come un ricatto teso a ripristinare il dispositivo del capro espiatorio. Una strumentalizzazione degli obiettori di coscienza che mira a restituire all’opinione pubblica la percezione di una gestione della pandemia da parte delle istituzioni, mentre invece non si tratta d’altro che di una manipolazione per distogliere da ciò che si sarebbe potuto fare e che invece non è stato fatto. Sicché, attraverso una tecnica volta a ridurre l’insicurezza è stata approntata una soluzione igienica, grazie a cui l’istituzione statale può fregiarsi di una certa credibilità e riciclare la classe politica in giacenza al termine di questa vicenda. Uno scenario istituzionale da cui traspare non soltanto la crisi della simbolica politica, ma anche il sado-narcisismo come tratto tipico del sistema perverso di pensiero e proprio a chi ha un ruolo di potere. Questo perché «nella perversione del carattere viene attaccato l’altro, non ne viene riconosciuta l’autonomia, la possibilità di avere propri bisogni, esigenze, desideri, per questo deve essere dominato, controllato, destabilizzato» (M. Baldassarre/M. Mastracci, Potere e perversione, 2014).

Nella storia la verità si è sempre imposta da sé e non ha mai avuto bisogno di prescrizioni, mentre la libertà ha sempre avuto bisogno di essere affermata e difesa. Si può quindi dire che «quando un osservatore esterno è nella posizione adatta per vedere che tale sistema contiene una credenza inesatta e che inoltre non è possibile fornire alcuna prova della sua inesattezza nei termini del sistema stesso, allora è nella posizione per dire che tale sistema è diventato una trappola. In una situazione del genere, l’osservatore esterno vede chi è all’interno del sistema come dogmatico, mentre chi si trova all’interno vede l’osservatore come qualcuno che si rifiuta di accettare ciò che è “ovviamente così”. Ed entrambi hanno ragione» (G. Stolzenberg, Può un’indagine sui fondamenti della matematica dirci qualcosa di interessante sulla mente?. Sta in La realtà inventata, a cura di P. Watzlawick, 2010). Ora, finché ognuno dei due gruppi in questione può liberamente amministrare il proprio corpo, allora ciascuno dispone della propria libertà e decide secondo coscienza, ma poiché i vaccinisti tendono ad autolegittimare la propria condotta come non confutabile e a prescriverla in quanto soluzione buona per tutti, ne viene di conseguenza che non potrà esservi rispetto delle rispettive posizioni. Questo perché la trappola grande quanto il mondo in cui tutti ci troviamo ad abitare è quella delle apparenze, le quali sono date dall’uso del linguaggio e da ciò che immaginiamo essere vero. Da qui deriva che non possiamo fare a meno di considerare che le ipotesi non possono essere fondate come realtà, a meno di non incorrere in quello che Maturana definisce «il peccato della certezza» (G. Stolzenberg, 2010). Quindi, poiché le apparenze ingannano – ed il rischio di cadere in qualche trappola è sempre presente, specie quando si accetti un’unica versione senza mettere in discussione niente – si può allora asserire che nel caso in cui si accrediti una sola verità parziale spacciandola come assoluta, abbiamo allora a che fare non con la scienza ma con una credenza onnipotente. Chiunque voglia pensare il mondo nella sua interezza e non il mondo all’interno di un sistema chiuso, dovrà allora procedere attraverso una costante messa in discussione di ciò che viene comunemente accettato in quanto diffuso «bisogno di un sistema» (G. Stolzenberg, 2010), evitando così una riedizione di quella logica manichea che nella storia ha puntualmente animato il fanatismo religioso e politico.

La riduzione della complessità a forme elementari e facilmente consumabili dall’opinione pubblica, costantemente drogata dall’ideologia dello shopping, corrisponde quindi ad una manipolazione di massa, organizzata dalle stesse istituzioni e degli organi dell’informazione che pretendono il cedimento della libera volontà dell’individuo di fronte al moloch della comunità, del consumo e del consenso. Pertanto, a meno di non rinchiudersi nel vicolo cieco di una credenza autoreferenziale, è possibile riconoscere solo «nell’etica – tolleranza, pluralismo, distacco dalle proprie percezioni e valori per fare spazio anche a quelli di altri – il vero fondamento della conoscenza e anche il suo punto di arrivo» (F. J. Varela, Il circolo creativo: abbozzo di una storia naturale della circolarità. Sta in La realtà inventata, a cura di P. Watzlawick, 2010).

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Domenico Treccozzi

Domenico Treccozzi si occupa di critica sociale e più recentemente di Counseling rivolto alla persona, alla coppia, alla famiglia, ai gruppi ed alle organizzazioni. Interessato ad una lettura psicopolitica dei fenomeni culturali in genere, così come è stata formulata dalle teorizzazioni di Luigi De Marchi, è alla ricerca di un adattamento alla libera pratica del Counseling (di derivazione dalla migliore tradizione umanistica di Carl Rogers), secondo l'apporto integrato e strategico dei più recenti sviluppi nell'ambito della relazione d'aiuto.

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