

Foto di Sonia Capuccini (CaoS Photo)
(da «Sesso e covid, Recalcati: “Corpi a distanza? È parlando che si fa l’amore”»).
Dall’amore che non ha bisogno di parole in quanto le parole possono anzi significare un’interruzione del sentire, alle parole come manifestazione sublimata dell’amore, la versione di un ideologo lacaniano sembra giocare a metà tra la vecchia formula cortese di un amore senza sesso e quella romantica di un sesso senza amore. Il punto da cui si diparte la presente confutazione è l’idea paradossale, tutta lacaniana, secondo cui per i corpi «non c’è rapporto sessuale», mentre è con le parole che in realtà si fa l’amore. Una formulazione ripresa al fine di smobilitare il desiderio dei corpi negli attuali rapporti a rischio, a cui sembra accompagnarsi il tentativo di una cattolica riabilitazione del desiderio svuotato della sua sostanza: il carnale, legato alla terra e al peccato per via di una caduta originaria. Questo a causa delle circostanze da covid-19, momento in cui il gigolò della psicoanalisi di professione di nome Recalcati fa opera di persuasione massmediatica al fine di dissuadere dai rapporti sessuali a rischio di trasmissione del virus.
Tuttavia, quando Lacan scrive che «non c’è rapporto sessuale» sembra in verità essersi perso le virgolette per strada, finendo per trattare i suoi pensieri come se fossero la realtà (o, se si preferisce, qualcosa di più Reale del reale). Così, come nel caso di Dora è Freud ad estendere una sua fantasia privata e a darle un fondamento clinico, equivalente di un falso d’autore, allo stesso modo sembra fare Lacan quando è disposto a credere, alla maniera dei cattolici che nell’eucarestia sono convinti di mangiare il corpo di Cristo, che non possa esservi rapporto sessuale a partire dalla sola implicazione dei corpi (questo perché, secondo Lacan, il desiderio di fusione totale è quello di divenire una sola cosa). Seguono poi le speculazioni sulla dicotomia del maschile che gode del fallo in una chiusura autistica e idiota, da cui deriva la frammentazione della persona totale in oggetto parziale e del femminile che ricerca un sostituto dell’oggetto paterno perduto, a cui pure si accompagna la costante di un’eterna domanda d’amore.
Secondo Lacan e tutti i lacaniani a seguire – e ricordiamo che non si può essere lacaniani senza identificarsi in maniera adesiva alla parola del grande maestro –, dietro il desiderio del corpo dell’altro vi sarebbe una nostalgia delle origini, ossia un desiderio di fare ritorno a quel tempo in cui si era una sola cosa con la madre in quanto chiave d’accesso al Paradiso Perduto. La madre si configura così come l’inclinazione ad un tempo precedente la nascita della tensione (e quindi del desiderio), una dimensione in cui non vi era ancora né separazione né mancanza. Il desiderio di fare ritorno all’unità narcisistica primaria si presenta così come la massima espressione del principio di piacere, da cui deriva che l’esaudimento della pulsione si compie sotto l’impulso di una tendenziale simpatia per il silenzio e per la morte. Quindi, l’immagine dell’unità dei corpi che non possono fondersi e divenire una sola cosa è da un lato presentata come ciò che si desidera (ma che se si ottenesse rappresenterebbe la distruzione del desiderio), mentre dall’altro trova espressione nell’enunciato che recita «non c’è rapporto sessuale» (che a quanto pare sarebbe meglio rettificare, specificando “come fantasia di una fusione totale con l’altra parte”).
Ora, sebbene l’immagine dell’amore proposta da R. Barthes – ossia il bambino intento a smontare la sveglia per scoprire il segreto del tempo – lasci ancora presupporre un giorno in cui questa illusione verrà abbandonata in favore di una visione più realistica, la fantasia di una completezza narcisistica primaria nell’unità simbiotica con la madre sembra invece persistere nella concettualizzazione teorica di Lacan sotto forma di fantasma psicoanalitico. Così, poiché l’alienazione dell’oggetto del desiderio porta Lacan a formulare il misterico enunciato secondo cui «non c’è rapporto sessuale», ecco che Recalcati fa lo stesso con la sua catechistica riabilitazione della parola d’amore puntando in termini spirituali a ritrovare il tempo perduto dell’infanzia.
La coabitazione con la dimensione depressiva della parzialità, da cui traspare la vulnerabilità dell’Io che non può avere, essere e fare tutto, comporta l’esperienza della frustrazione rispetto alla cosa supremamente buona (il seno della madre) che non può più darsi all’infinito (si veda M. Klein, Invidia e gratitudine, 1969). Pertanto, se l’inattingibilità dell’oggetto non costituisce ancora un suo disinvestimento è perché la formidabile idealizzazione della parola funziona da dispositivo di mediazione del desiderio dell’altro; un’escogitazione che lascia uno spiraglio alla credenza di un vago ritorno all’amore delle origini su un immaginario tappeto di parole. Il disincanto ci induce così a pensare che se il piacere dei corpi non può inseguire la nostalgia del fantasma della madre in quanto desiderio irrealistico, il desiderio della parola può però sostituirglisi e costituire un veicolo per una fusione immaginaria con l’ideale originario del narcisismo primario.
Questo desiderio ammaliante è perseguito nell’impresa idealizzante di poter ritrovare il proprio oggetto perduto che persiste come l’eterno ritorno dello stesso, quasi che il suo attingimento possa significare un potere magico – così com’è concepito il mana presso certe culture tradizionali – in grado di restituire l’Io al proprio ideale (si veda J. Chasseguet-Smirgel, L’ideale dell’Io. Saggio psicoanalitico sulla ‘malattia di idealità’, 1991). È qui che il principio estetico dell’interpretazione lacaniana fa sì che sia vero ciò che è esibito, proprio come la parola di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia a Roma ha agito in maniera ipnotica e suggestiva sulla massa emergente come fenomeno sociologico. Dunque, sia nel caso di Recalcati alla televisione, che in quello di Mussolini affacciato al balcone, si tratta sempre della stessa cosa, ossia di sedurre secondo un’appropriazione onnipotente del desiderio attraverso il potere suggestivo della parola. Quello che scriveva W. Reich in relazione al fenomeno del fanatismo di massa degli anni ’30, cioè «sono tutti estasiati» (W. Reich, Individuo e Stato, 1994), si può riferire oggi alla cultura dell’apparire. L’ideologia ipermoderna si può quindi tradurre nel fascino febbrile di una narcisistica forma di esistenza in cui rispecchiarsi illimitatamente.
In quanto sembiante fallico Recalcati dissemina i canali e la rete di un godimento narcisistico e onnipotente come prodotto di una liberalizzazione del desiderio e garanzia di un’eterea forma di sopravvivenza. Si pensi così all’officiante lacaniano, affacciato al suo video/balcone, mentre congettura sulla retorica dell’amore attraverso l’improbabilità delle parole come surrogato del sesso. Un incantesimo non meno ingannevole del controllo della realtà attraverso cui il narcisista di professione mette in scena una feticistica spettacolarità, da cui si evince che se è vero che il diavolo sta nei dettagli, non è vero ciò che è vero (cioè il “c’è” del rapporto sessuale), ma solo ciò che riflette la sua propria immagine. Infatti, nella filosofia lacaniana il corpo e la parola sono scissi ad esclusivo vantaggio di una speculazione intellettuale che separa ciò che avviene al livello della mente – questa “puttana dell’intelligenza”, per dirla con Perls – da ciò che è percepito al livello del corpo, via d’accesso alla comprensione di sé attraverso l’esperienza totale della persona nella realtà.
Una scissione che sembra riflettersi nell’enunciato che recita «non c’è rapporto sessuale» dei corpi evaporati nella parola sublimata, a cui fa da contraltare l’evanescente rapporto d’amore tra le parole chiuse nella torre d’avorio come una principessa nel suo castello. Insomma, siamo di fronte ad una menzogna onnipotente come impresa della mente da cui in filigrana è possibile leggere l’ideologia privata di Recalcati come impresario di un’erezione oracolare distribuita sul mercato del desiderio. E va a finire così che, cedendo al cospetto di Lacan (equivalente del nome-del-padre, dietro cui si nasconde l’impianto della cultura giudaico-cristiana), il gigolò della psicoanalisi lacaniana gioca la propria padronanza secondo uno slittamento dei significanti a cui tanto i corpi quanto le parole si prestano come oggetti interscambiabili.
Bisogna quindi demistificare il miraggio delle parole con cui si può anche fare l’amore – le parole in quanto come se che giocano a far finta di – e smascherarne l’aleatorietà, perché la finzione dell’uscita del soggetto dalla chiusura su se stesso e l’interruzione della propria solitudine non rappresenta che un’illusione. Ma questo modo di far accadere l’impossibile del desiderio sembra avere a che fare più con una sua deviazione che non con la dimensione della sessualità in una drammatica relazione d’amore (si pensi al marchese De Sade mentre scrive rinchiuso nella Bastiglia). Infatti, contrariamente a quanto piace pensare a Recalcati, si può invece essere più certi di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna a partire dal loro incontro che da uno scambio di parole tra due amanti, il quale ha meno implicazioni sia in relazione alla dipendenza, la quale si può originare a partire dal sesso e poi dalla sua mancanza, che in relazione ad un’eventuale gravidanza.
Il corpo è quindi una superficie su cui il montaggio del desiderio dà forma a quel fantasma delle origini che sembrerebbe mancare alle parole, così com’è vero che l’immanenza dei corpi impossibilitati a fondersi nel rapporto sessuale, mancano a loro volta di quella parola sublimata che non si limita a consumare il sesso come un ossimoro, ossia quale pura apparenza, ma aspira al significato di una trascendenza in un altrove immateriale che è transustanziale al suono della voce della madre (si veda F. Fornari, Psicoanalisi della musica, 1984). Abbiamo così da un lato un corpo senza spirito e dall’altro uno spirito senza corpo, da cui deriva una scissione delle due dimensioni e un’esperienza diminuita, parziale e infine deformata della relazione con l’altro. Il sesso è allora ciò che lega anche se non è ancora una prova della disponibilità di sentire una simultanea intima apertura, mentre la parola conserva la sublime illusione che secondo Lacan ai corpi non è più concesso di avere a partire dall’enunciato che recita «non c’è rapporto sessuale».
Dopodiché, siamo alla beata mistificazione della donna, momento in cui Recalcati attinge ad un mito di matrice cattolica, attraverso il quale postula il sesso femminile come quello più disposto al rischio dell’amore in quanto costitutivamente avvezzo all’assenza (la mancanza del pene). Una mentalizzazione della femminilità che nega l’esistenza di due sessi e punta ad una riduzione dell’erogeneità diffusa della donna a contenitore della supremazia significante del fallo (contenuto messianico della speranza che prende forma nella gravidanza), fondando così il mito della vergine Madonna e di Gesù bambino come ideale dell’amore femminile.
Quando al termine dell’intervista con la giornalista si ritorna sul tema del corpo – senza il quale, spiega Recalcati, non si dà rapporto sessuale – ecco che il prestigiatore di parole è improvvisamente pronto a dire magicamente il contrario di quello che ha sostenuto precedentemente, cioè che la mancanza di familiarità con il corpo dell’altro si prospetta come la migliore garanzia del desiderio. Recalcati passa così dai due corpi che all’inizio si cercavano senza potersi incontrare nel fantasma dell’unità simbiotica con la madre, per via della loro esteriorità e della mancanza di intimità espressa invece dalla parola, ai corpi che si consumano in virtù della loro estraneità, in quanto superfici su cui giocano i desideri svuotati di quella pretesa di assoluto che un momento prima investiva il desiderio di un ritorno alle origini. E così, come il bambino di Barthes smonta la sveglia per scoprire il meccanismo segreto del tempo, allo stesso modo Recalcati sembra lasciar sperare che nella messa a nudo di un altro corpo si possa scoprire quel totalmente Altro del corpo della madre, dimensione all’interno della quale sembra covare in segreto l’illusione onnipotente del desiderio, di cui la filosofia lacaniana è espressione in quanto fantasma alla ricerca di se stesso.
Così, se l’analisi espone all’urto del significato tra il proprio oggetto d’amore inteso come un libro che continua a suscitare desiderio e la ripetizione nevrotica volta alla ricerca dell’oggetto perduto, non si capisce d’altra parte come sia possibile pervenire ad una riduzione dell’altro (la donna e l’intero universo femminile) al controllo dell’immaginario maschile! Se amare l’altro significa amare soprattutto la sua diversità, in quanto l’altro come sinonimo simbolico di un libro non tiene in conto della sua alterità irriducibile ad alcunché di particolare, ne viene allora di conseguenza che, qualora si sia fatta conoscenza della famiglia d’appartenenza, non è allora più possibile conservare la sua estraneità, perché per via di una serie di vischiosità che tradiscono ciò che fino a prima era un’immagine originale e davvero eterogenea, il desiderio comincia a questo punto a decadere nella ripetizione nevrotica di un atto che ha perso la sua attrazione.
Infatti, se ciò che conta è l’eccitazione per la sorpresa che riserva la ricerca di un corpo nuovo come fonte di piacere grazie a cui sfuggire all’alienazione sessuale, com’è possibile conciliare l’organizzazione dello scenario privato maschile su un sesso che non concepisce la differenza? È possibile in considerazione del fatto che sebbene in un primo tempo si parli di amare l’eterogeneità dell’Altro, scritto con la A maiuscola per indicare l’aspetto massimamente idealizzato della sua alterità, in un secondo tempo si riduce il partner in amore ad un corpo di godimento, qualcosa di cui servirsi e che se ne sta lì in attesa di essere amato ripetutamente (un oggetto inerte, come un libro, appunto). L’estetica dello scrigno è la formula lacaniana in cui si conserva non tanto la promessa d’amore quanto quella della seduzione di una performance unica e incomparabile per il formidabile adescatore di desideri in cerca dei suoi destinatari. E va a finire che come in base a certe visioni religiose le cose diventano spirito (in virtù di un’identificazione proiettiva), qui è lo spirito a farsi cosa nella metafora dell’amore pensato come un libro (in virtù di un’identificazione introiettiva).
I lettori e le lettrici attenti avranno osservato che in tutta questa costruzione di Recalcati vi è un surplus di godimento inconfessabile da cui prende forma la credenza nel passaggio da un amore spirituale in cui «non c’è rapporto sessuale» in uno in cui l’oggetto del desiderio è la seduzione: si desidera ciò che seduce. Quindi, se è vero che il corpo bisogna che diventi un libro in grado di suscitare la parola ancora nell’altro, tessere parole è allora un equivalente del desiderio di fare l’amore a cui il corpo in carne e ossa si sottrae attraverso il gioco di prestigio della sublimazione. Si tratta solo di saper distinguere qual è la differenza tra la creazione d’opera come transfert narcisistico e recupero dell’oggetto perduto in luogo della madre – topos in cui è inscritta la nostalgia speculativa di un ritorno all’origine (A. Green, Slegare. Psicoanalisi, antropologia e letteratura, 1994) – e la nevrotica riproposizione autoreferenziale come solipsistica ancora di salvezza.
Infine, posto il senso di parzialità e di ambivalenza con cui tutti siamo costretti a fare i conti, ora sul versante depressivo ed ora su quello maniacale, tanto per i corpi quanto per le parole è sempre un fatto di legami imprescindibili con il perturbante rapimento della dimensione profonda dell’inconscio, i quali non sono altro che un derivato della stessa illusione di portare con sé e di essere trasportati, vale a dire di sedurre e di essere sedotti, dal suono della grande assente. La madre: l’illusione onnipotente.
Bravissimo, analisi sopraffine, ottima dialettica.