Opinioni

Lettera aperta a un mondo che dimentica

Lo sfogo di uno studente che vive d'arte

Il nostro è un mondo che corre: economia, informazione, malattie (purtroppo). Tutto è in estremo movimento, in una costante accelerazione e tensione verso il domani. Si fanno programmi, pianificazioni, progetti di vita a medio e lungo termine. Poi tutto, d’improvviso, si blocca.

Le nostre abitudini, i nostri “riti”, la nostra quotidiana è stata stravolta da un nemico tanto fastidioso quanto terribile, che miete vittime e mangia al tavolo del nostro modo di vivere, consumandone bocconi ogni giorno sempre più grandi.

Questo è un enorme problema. L’acutezza con cui questo fantasma si è incastrato nel più profondo dei nostri animi è tagliente, fa paura. Tutto è cambiato (perché doveva cambiare per evitare il collasso), ma noi, nel nostro intimo, eravamo e soprattutto siamo pronti ad affrontare l’enormità che questo fenomeno comporta sulle nostre persone?

A scrivervi è uno studente universitario al secondo anno di magistrale. “Dai di cosa devi lamentarti, sei giovane, hai tempo per rifarti”, so già che lo state pensando. E sì, sono d’accordo con voi. O almeno, una parte di me lo è.

L’altra ha la consapevolezza che niente di tutto ciò che è sempre stato sarà ancora come prima. Anche e soprattutto noi. Limando ogni giorno una parte di noi, una nostra estensione, abbiamo chiuso piccole parti di noi stessi. Abbiamo sprangato le finestre aperte su qualcosa di cui sentiamo la mancanza, e che quindi è meglio tenere lontano. Abbiamo stretto il cerchio delle necessità così tanto che ora rimane poco tra le braccia.

La solitudine è la bestia più grande a cui questa condizione ci obbliga. Una solitudine forzata, odiata, condannata eppure condivisa e necessaria. Purtroppo ancora troppo poco si parla dell’implicazione della coesistenza di queste due componenti, così diverse nella loro natura.

Momenti di aggregazione come l’Università sono stati soppiantati da versioni edulcorate e sbiadite on-line, che risultano pallide imitazioni di quello che un momento di crescita fondamentale come quello dell’alta formazione, normalmente, implicherebbe. “Ma dai, non farla tragica, ci sono così tante persone che la stanno vivendo benissimo, pensa a chi sta peggio”. Io invidio chi in questo periodo sta producendo e crescendo. Tantissimo. E sono sicuro di non essere nella posizione di dire di stare peggio di chi sta male o ha perso un proprio caro in questa pandemia. Nel modo più categorico e assoluto, condivido tutto, dolore e consapevolezza responsabile delle restrizioni messe in atto.

Parlo però dello stato d’animo di sospensione in cui parte di noi studenti viviamo, che sembra non essere un tema di cui “i grandi” si preoccupano, proprio perché non affligge categorie interessanti ed economicamente proficue. Sono stati tagliati ponti, momenti, aspirazioni che magari definiscono le persone, senza preoccuparsi di come queste cose stiano intaccando gli interessati. È un pensiero contorto, se volete egoistico (?) ma è quello che mi sento di dire.

Mi sento abbandonato? Sì. Sono un ballerino e la danza è stata tagliata fuori. Sono un uomo d’arte, e questa è stata chiusa. Sono attivo nel sociale, e questo è bloccato. Non posso stare bene, anche se la mia salute come generalmente intesa, dice il contrario.

Noi non stiamo bene, e prenderne consapevolezza è il primo punto. Ovviamente non so dove portarlo o quali sviluppi dare, ma è così. Essere persi in un mondo disorientato è una sensazione frastornante, proprio perché, in barba a tutto quello scritto, il mondo continua a correre e le scadenze ad arrivare.

Questo vuole essere uno sfogo. Non c’è rilevanza scientifica, o approfondimento culturale in quello che dico, è una riflessione aperta con voi che state leggendo. È come voler dire “ehi, sono qui”, in un mondo che ha i riflettori puntati altrove.

Spero che questo status diventi presto solo un ricordo, ma il fatto che sia passato non implica che non ci sia stato. Ci ricorderemo per sempre di questa difficoltà, della sensazione di “affogare” in questo mare così turbolento.

Dato che in pochi se lo chiedono, lancio io la rassegnata provocazione: siamo capaci di prevedere quanto sarà profonda la cicatrice?

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Carlo Colleluori

Carlo Colleluori, 24 anni, ballerino a tempo perso e dottore in Scienze della Comunicazione e laureando magistrale in Media, Arti, Culture. È appassionato di lettura, serie tv e parchi a tema. Attivo anche nel sociale attraverso diverse associazioni, cerca ogni giorno di combattere e dare una voce ai diritti di tutte e tutti.

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