Opinioni

La voce degli studenti che vogliono stare in aula

Ci siamo. Una dopo l’altra le regioni italiane stanno premendo il pulsante di arresto della didattica in presenza negli istituti superiori e nelle università. Dopo uno shutdown generale al mondo dell’arte e della cultura, ora è quello dell’istruzione a pagare il prezzo dell’incapacità delle nostre istituzioni di gestire un prevedibile stato di sofferenza.

Il caldo, l’estate e il progressivo calo dei contagi hanno permesso di allentare la necessaria stretta in cui abbiamo vissuto nei mesi primaverili, alleggerendo anche la pressione che premeva su ogni singolo cittadino e restituendo uno specchio di normalità. Dall’altra parte del sipario, si diceva che si stava lavorando affinché convivere con il virus diventasse possibile, affrontando una sfida spinosa ma necessaria. Insomma si cercava di costruire una enorme diga per arginare l’avanzata di questo nemico agguerrito. Peccato che alla prima piena il sistema abbia ceduto e mostrato la sua nuda inadeguatezza.

Alle istituzioni universitarie intenzionate a riprendere l’attività didattica in presenza è stato chiesto di fare innumerevoli valutazioni, studi, attivazione di protocolli e procedure, il tutto per garantire la sicurezza degli studenti, dei docenti e di tutto il personale. A impegnarsi in questo senso sono stati soprattutto i piccoli e medi atenei, che proprio per le dimensioni ridotte e il bacino di affluenza in gran parte territoriale, potevano operare in tal senso. O meglio non avevano scelta, se non volevano essere mangiati dalle lezioni in streaming delle grandi università. “Se devo seguire le lezioni online, tanto vale iscriversi a Roma o Milano” o “se l’online è la soluzione, mi iscrivo ad una telematica che fa questo da sempre, per sua natura”, le opinioni comuni.

Non sono state scelte facili, o prese alla leggera, ma studiate a tavolino per ogni singola realtà in base a numeri, affluenza, capienza degli spazi. Realizzato il tutto, la macchina messa in moto ha dimostrato immediatamente la sua efficienza: rilevazione della temperatura, sanificazione continua delle mani e degli ambienti, mascherina obbligatoria sempre e ovunque, prenotazione del posto in aula, posti distanziati e permanenza massima limitata e trasmissione in streaming. Anche i protocolli di isolamento dei casi di positività risultano funzionali e ben oliati. Le comunità studentesche hanno risposto in maniera positiva, supportando la propria università, e tutto sembrava procedere per il meglio, sempre con cautela.

Fino alla insindacabile chiusura. Sprangare le porte così, dall’oggi al domani, è stato sbatterle in faccia agli studenti che in questi mesi si sono impegnati con case, affitti, abbonamenti e spese. Se il problema fosse in ateneo, lo capiremmo, così come l’abbiamo fatto in primavera. Allora eravamo impreparati, sconvolti e spaventati e pronti a fare un passo indietro. Stavolta invece il passo indietro lo facciamo, certo, ma con l’amaro in bocca.

Mentre ci si organizzava per riprendere in sicurezza, le istituzioni, soprattutto quelle regionali, avrebbero dovuto lavorare sul sistema dei trasporti (penoso già prima della pandemia) e non è stato fatto. Avrebbero dovuto lavorare sui controlli, e non è stato fatto. Avrebbero dovuto lavorare su operazioni diversificate per ogni realtà, ma non è stato fatto. Dalla prima fase dell’emergenza non si è imparato niente, siamo ancora impantanati lì dove ci eravamo incagliati.

Ci siamo fatti belli fino a poche settimane fa dicendo di stare meglio degli altri paesi europei, che il nostro era un modello virtuoso apprezzato in tutto il mondo, che il nostro vantaggio avrebbe giocato un ruolo fondamentale in questa fase, ci avrebbe permesso di nuotare mentre gli altri galleggiavano. E allora vale la pena chiamare le cose col loro nome. Quando non si può più accedere al luogo di studio, ai teatri, ai cinema, alle sale danza, quando non si possono fare più cene, aperitivi o passeggiate notturne, c’è una sola parola e tanto vale usarla: lockdown. Un lockdown totale di alcune categorie scelte a tavolino perché meno rilevanti agli occhi dei grandi numeri, questo è il vero significato dietro ciò che sta succedendo.

Quello che sconforta è che se da piccoli ci viene detto ripetutamente “studiare è il tuo lavoro”, è in questi momenti che si evince quanto quelle parole siano vuote e prive di un vero significato. Studiamo per crescere, migliorare e diventare professionisti per noi, per il nostro Paese, per segnare un piccolo cambiamento nel mondo. Ma no, non è sufficiente. Meglio prepararsi a vedere un collega prendere il nostro posto perché è riuscito a svolgere quello che noi non abbiamo potuto, perché in didattica a distanza. Quando tra qualche anno si punterà il dito contro questa generazione, spero ci si ricorderà di quanto le è stato tolto e sottratto pur di non ammettere che non si è stati pronti, nonostante il tempo e le risorse.

Noi rispetteremo tutte le regole che verranno attivate alla lettera, come abbiamo sempre fatto, perché siamo responsabili, al contrario di quello che racconta il fumo venduto dai mass media. Nessuno più di noi vede l’ora di tornare alla normalità e a fare quello che ci piace e ci appassiona: studiare, approfondire e fare ricerca.

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Carlo Colleluori

Carlo Colleluori, 24 anni, ballerino a tempo perso e dottore in Scienze della Comunicazione e laureando magistrale in Media, Arti, Culture. È appassionato di lettura, serie tv e parchi a tema. Attivo anche nel sociale attraverso diverse associazioni, cerca ogni giorno di combattere e dare una voce ai diritti di tutte e tutti.

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