

Da diversi anni, ormai, il Giappone sale alla ribalta delle cronache quasi esclusivamente per il problema dei suicidi. E non c’è da stupirsi. Gli ultimi dati, infatti, sono molto negativi: nel solo mese di ottobre si sono tolti la vita 2.153 giapponesi, un numero maggiore di quello dei morti per coronavirus dall’inizio della pandemia. Il dato cumulato di suicidi nel 2020 supera i 17.000 casi, con incrementi allarmanti tra le donne (+40%) e tra i giovani sotto i 20 anni.
Per il 2020 le cause vengono individuate, dalle competenti autorità nipponiche, soprattutto negli effetti collaterali dell’epidemia Covid-19: isolamento, crisi economica, riduzione del reddito personale, perdita del lavoro.
Ma ci sono due fattori che rendono debole questa chiave interpretativa del fenomeno. Il primo è che la piaga dei suicidi flagella il Giappone da sempre (tanto da avere un rituale codificato in epoca premoderna) e che la rilevazione statistica (iniziata alla fine degli anni ’70) ha semplicemente portato alla luce in modo sistematico; il secondo è che la precarietà sociale per una amplissima parte dei giapponesi è un dato strutturale, Covid o non Covid. La gran massa dei giapponesi vive in modo precario: è calcolato che almeno il 35% dei posti di lavoro è a tempo determinato (in Giappone si usa una triste parola per questi lavoratori, arbeit) o in nero, senza garanzie o certezze, spesso con rinnovi, non sempre certi, di mese in mese.
Sono molte le cause che spingono un così alto numero di giapponesi al suicidio: la perdita del lavoro, l’indebitamento (le famiglie giapponesi hanno – secondo le statistiche ufficiali – in media debiti pari al 107% del reddito disponibile) frequentemente contratto con spietati strozzini, ma anche il fallimento negli studi o i più “normali” problemi sentimentali.
Ma accanto al problema dei suicidi esiste e si allarga di anno in anno il fenomeno della johatsu, cioè della scomparsa (letteralmente, evaporazione) di migliaia di persone (circa 100 mila ogni anno), che svaniscono nel nulla. Le strette regole che vigono in Giappone sulla privacy impediscono perfino ai familiari di fare ricerche sulle persone scomparse. Le motivazioni di questi desaparicidos sociali sono pressoché identiche a quelle dei suicidi: lo scopo è togliersi di mezzo, lasciare per sempre la vecchia identità, uscire dai meccanismi ufficiali della società. Molti di loro, se non tutti, finiscono nelle baraccopoli fatte di tele cerate azzurre, che riempiono le zone periferiche e più marginali delle città, ma che a Tokyo, ad esempio, si trovano numerosissime nei centrali parchi di Shinjuku o di Yoyogi.
Il Giappone è entrato da almeno un quarto di secolo in una fase di stagnazione economica e di semi immobilismo sociale. Dopo il boom degli anni ’60, con tassi di crescita del PIL anche del 12% su base annua, che aveva il suo centro propulsivo nelle Olimpiadi di Tokyo del 1964 e che ha cambiato in modo radicale e irreversibile la capitale e tutto il Paese, nei venti anni successivi l’economia giapponese è rientrata nella norma internazionale, anche se questo non ha impedito al Giappone di imporsi definitivamente come seconda potenza economica mondiale, assurgendo al ruolo di leader internazionale in settori nuovi e innovativi (informatica, elettronica, robotica, telecomunicazioni, solo per citarne alcuni).
Nei primi anni ’90, anche a seguito dell’esplosione della bolla speculativa edilizia nel 1989, il modello di sviluppo entra in crisi, con l’entrata in scena di nuovi e più dinamici concorrenti: Corea del Sud, Taiwan, Sud Est Asiatico, ma principalmente e soprattutto la Cina. Il vecchio approccio nipponico allo sviluppo si dimostra completamente inadatto alle nuove sfide imposte dalla progressiva globalizzazione dell’economia mondiale. Nel 1993 il PIL registra la prima seppur modesta contrazione (-0,5%); poi ancora nel 1999, nel 2009 (-5,4%) e nel 2015, mentre negli altri anni cresce solo per frazioni minime di punto. Tantoché nel 2019 era ancora allo stesso livello del 1995, aggravando la situazione economica ed esistenziale di milioni di giapponesi, data la persistente ineguale distribuzione del reddito
Sono anni ormai che il Giappone è entrato in un grande sonno. È emblematico, per la sua metafora preveggente, il romanzo del 1989 Sonno profondo di Banana Yoshimoto, in cui la protagonista – una giovane donna, mantenuta da un amante che ha una moglie malata – dorme continuamente e profondamente, incurante di e disinteressata a quello che accade fuori, nella città e nel mondo. Risponde solo alle sollecitazioni del suo amante.
Da due decadi i vari governi guidati dal conservatore Partito Liberaldemocratico – al potere ininterrottamente dal 1955 – hanno continuato ad immettere liquidità nel sistema, per dare uno stimolo all’economia. Ma, nonostante i bassissimi tassi d’interesse (negativi, in termini reali) i risultati sono stati ben al di sotto delle aspettative. Il debito pubblico ha raggiunto il 237% del PIL e la immensa massa di denaro immessa nel mercato è servita unicamente a favorire gli speculatori: in questi giorni Nikkei, l’indice della Borsa di Tokyo, continua a macinare nuovi record di crescita, anche se ancora ben lontano dal picco del 1989. La novità è che, forse per la prima volta, analisti e commentatori giapponesi puntano il dito sulla inefficace e distruttiva politica economica del Governo: la forbice tra finanza e paese reale si sta allargando oltre misura; la Borsa festeggia e l’economia rantola; i divari crescono a ritmi esponenziali.
Yoshihide Suga, uomo di destra e legato all’organizzazione ultranazionalista Nippon Kangi, a metà settembre ha preso il posto di Shinzo Abe, prima come Presidente del Partito, poi come Primo Ministro. In previsione delle elezioni politiche del prossimo anno e con l’obiettivo di portare a casa risultati veloci e concreti, per guadagnarsi la riconferma, si è subito messo in moto, avendo due obiettivi primari: contenere l’epidemia e stimolare la ripresa economica. Ma il primo grande provvedimento, annunciato martedì, è la solita immissione di liquidità nel sistema: un pacchetto da 320 miliardi di euro, aumentabili a 500 in corso d’opera, se dovesse essere necessario. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, se non che, per la prima volta forse, è previsto un intervento di sostegno alle famiglie monoreddito.
Inoltre, ha sottoscritto l’accordo Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) con i Paesi ASEAN, Cina, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda, che dà vita a un blocco di libero scambio che vale il 30% dell’economia mondiale e coinvolge 2,2 miliardi di persone. I settori di collaborazione riguarderanno la valorizzazione delle supply chain, la riduzione dei dazi, l’e-commerce.
Un accordo che Suga si è trovato bello e confezionato e che ha dovuto firmare perché le intese erano state già raggiunte, ma piuttosto lontano, come filosofia, dai suoi punti di vista, basati su un accentuato nazionalismo. A riprova di questa situazione contraddittoria, si inserisce la proposta di assegnare al Ministero della Difesa un budget record di 52 miliardi di dollari, fortemente voluto dal titolare del dicastero, Noburo Kishi, anche lui uomo di destra. La notizia ha messo in allarme gli stessi partner del RCEP, in primo luogo Cina e Corea del Sud, che faticano a dimenticare le atrocità commesse dai militaristi giapponesi nei loro Paesi nei primi quarantacinque anni del secolo scorso. In sovrappiù, Kishi non ha mai nascosto le sue simpatie per Taiwan, irritando ulteriormente il Governo di Pechino.
Se la strada intrapresa è questa, i risultati nel lungo termine saranno fallimentari. È possibile che il PIL il prossimo anno abbia un’impennata, dovuta però solo alla ‘droga’ dei fondi immessi nel circuito, ma senza alcun cambiamento strutturale. Cercare di uscire dal grande sonno, puntando sul nazionalismo, poi, in questa fase, può essere molto, molto pericoloso.