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“Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu” e altre riflessioni su Netflix’s Social Dilemma

“I put a spell on you… ‘cause you’re mine!” Quante volte abbiamo sentito questa canzone, legata soprattutto a scene di amore e passione? Sicuramente un numero infinito. Diventa strano però riflettere sul significato che queste parole possono assumere, se vengono piegate ad una delle sfide più problematiche del nostro tempo: la “guerra fredda” contro il mondo dei social media (o meglio, della loro componente malvagia).

Ho trovato questo accostamento ossimorico nel docu-film “The Social Dilemma”, uscito su Netflix lo scorso settembre, per la regia di Jeff Orlowski. Il documentario è una raccolta di testimonianze di ex pezzi grossi delle società del mondo social (Google, Facebook, Pinterest, Twitter…)  e di esperti del campo delle scienze sociali e cognitive e punta a ricostruire un quadro dettagliato della genesi di questo mondo telematico, che da presupposti così tanto creativi e positivi, non ci si spiega come invece sia diventato lo spettro della nostra società e una bomba pronta a minare la base delle nostre democrazie.

La narrazione è molto coinvolgente, complice anche la presenza di due timeline, una più concentrata sullo storytelling visivo/emotivo e una sul racconto dei fatti. La profilazione delle perplessità implicite di questo ecosistema viene subito messa in chiaro, stimolo per una profonda riflessione.

“Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu” è sicuramente uno dei punti da cui bisogna partire. La gratuità apparente e immediatezza d’uso di questi tools deve essere pagata in qualche modo, altrimenti la macchina sarebbe insostenibile. Ed ecco che noi, da utenti, diventiamo oggetto di scambio: alla mercé di algoritmi che ci profilano, inconsci spettatori di una vetrina costruita appositamente su quello che dall’altra parte del mondo un supercomputer ha immaginato fosse più adatto a noi.

È naturale capire come questo sistema cammini sul filo del rasoio della messa in scena di un mondo che non necessariamente corrisponde alla realtà, perché le pareti della stanza sono piene di cose che amiamo o che ci solleticano, ma sempre ristrette nella nostra comfort zone. In sostanza è come accendere la luce su uno specifico spot, lasciando il resto al buio. Il risultato è che viene meno lo spirito critico e la capacità analitica della realtà, che guarda caso va a braccetto con la disseminazione di fake news, e, nei casi più estremi, di interferenze elettorali. La giurisprudenza non riesce a stare al passo, ed ecco che si innesta il dominio delle multinazionali e della loro “dittatura”. In fin dei conti sono loro a pagare per farci vedere quello che vogliono venderti. Un sistema così distopico che forse nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginarlo. Fa paura.

Le nostre istituzioni poi sembrano tutte in corsa, per cercare di raggiungere questo figlio scappato troppo in là. Siamo infatti passati dall’era dell’informazione a quella della disinformazione, e il sistema costruito non regge più. Ogni giorno ci viene detto quanto sia importante lo sviluppo tecnologico, e quanto questo sia di fondamentale importanza per un rinnovamento della società. E questo è senza ombra di dubbio un bene, sarebbe anacronistico e folle non riconoscere la pura magia che il mondo digitale ci mette a disposizione.

Sì, ho usato la parola magia, perché rimango ancora stupito dalle immense capacità creative che gli strumenti che abbiamo ci possono offrire. Un sistema complesso e affascinante nel suo intreccio tecnologico che in nessun altro modo si potrebbe spiegare in modo semplice, se non attraverso l’incanto.

Va assolutamente recuperata questa visione pura e positiva di questi dispositivi che stanno nelle nostre mani. Certo, le leggi dell’economia sono quelle che dettano i meccanismi, ma qualcosa possiamo e dobbiamo fare. Una rivoluzione interiore se vogliamo, un necessario cambio di prospettiva. Il giorno della nascita di internet, nessuno voleva che questo diventasse un centro commerciale aperto h/24, ed è ancora così.

La dimensione di scambio di informazioni e circolazione di conoscenza, questo è ciò che dovremmo recuperare. Quando ci accorgiamo che gli e-commerce online mangiano lo spazio di riviste, giornali, editori, musei, università, scuole e enti di cultura in generale, dobbiamo fermarci. Prenderci un momento per riflettere, anche solo con noi stessi. È questo che voglio? Sono sicuro di voler vedere queste pubblicità? È questo il sistema che pensavo di conoscere?

Ovviamente non parlo di buttare gli smartphone all’aria. Sono consapevole dell’importanza dell’interconnessione nella contemporaneità e cavolo, ne sono un super fan! Quello che dico è di prendere consapevolezza di quello che facciamo, e di come gira la macchina e cambiarla, se possiamo. Altrimenti (rubando un’altra citazione) saremo persi e non sapremo più come uscire da Matrix.

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Carlo Colleluori

Carlo Colleluori, 24 anni, ballerino a tempo perso e dottore in Scienze della Comunicazione e laureando magistrale in Media, Arti, Culture. È appassionato di lettura, serie tv e parchi a tema. Attivo anche nel sociale attraverso diverse associazioni, cerca ogni giorno di combattere e dare una voce ai diritti di tutte e tutti.

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