E l'Asia par che dorma

Quattro scenari e un funerale

La morte ufficiale di Lee Kun-hee, avvenuta il 25 ottobre scorso, ha messo fine al lungo interregno avviatosi nel maggio del 2104, quando Lee – a seguito di un infarto e altre complicazioni – entrò in coma. Da quel giorno non ne è più uscito, ma nessuno, né allora né dopo, ha mai osato togliergli la carica di Presidente della Samsung Electronics, l’azienda principale del più grande gruppo industriale sudcoreano, che conta, complessivamente, oltre 300 miliardi di dollari di capitalizzazione e un fatturato di quasi 40.

Ma qui, subito, occorre fare una precisazione: noi occidentali, quando ci troviamo davanti 10-15 società che portano lo stesso nome e sono gestite dai membri di una stessa famiglia, diamo per scontato che alle spalle e sopra tutto ci sia una holding, che detiene i vari pacchetti azionari delle società. Figuriamoci se le società controllate sono 80, con 160 mila dipendenti. Ma in Corea (e storicamente in Asia) non è così. Anzi, fino al 2017 nel Paese della Calma del Mattino era espressamente vietato costituire holding di controllo.

Il conglomerato di aziende che fanno capo ad una famiglia viene chiamato, in coreano, chaebol, traducibile, letteralmente, con il termine ‘famiglia ricca’. Famiglie (o clan) che controllano le unità produttive e di servizi del gruppo attraverso più o meno piccole partecipazioni individuali del Presidente e, soprattutto, tramite fiduciari (figli, figlie, generi e fratelli dello stesso). Giuridicamente, quindi, i chaebol sono un insieme di aziende indipendenti: questo consente che società controllate dalla stessa famiglia possano concedersi, a vicenda, garanzie per l’ottenimento di prestiti (le cosiddette ‘garanzie incrociate’, favorite e sostenute da un sistema bancario che potremo definire, nel migliore dei casi, compiacente). Ciò ha comportato e comporta un ammontare di debiti di dimensioni colossali: quando nel 1997 il FMI intervenne per sostenere il default della Sud Corea, si trovò di fronte ad una situazione limite. I primi 20 chaebol del Paese avevano un debito complessivo di 414 miliardi di dollari, pari al 112% delle attività, che ammontavano a 369 miliardi (e questo dopo indagini complesse e stime, perché il dato reale nessuno è riuscito a calcolarlo).

I chaebol sono sorti nella parte meridionale della penisola coreana negli anni ’60, come precisa scelta di modello economico perseguita dalla giunta militare, che prese il potere a Seoul nel 1961 in seguito a un colpo di Stato guidato dal generale Park, ex comunista convertitosi alla lotta senza quartiere contro il comunismo. La Corea del Sud, in quegli anni, occupava stabilmente le ultime posizioni tra i Paesi più poveri del mondo. In un intreccio perverso tra affari e politica, mazzette, crescita economica, corruzione, repressione e sviluppo, i governi militari per quasi 30 anni hanno garantito, a una trentina di famiglie ben connesse con il potere, prestiti pressoché illimitati, contando anche sul sostegno, politico ed economico, degli USA, i veri registi di tutta l’operazione, purché i beneficiari raggiungessero i target di esportazione fissati dal governo. La Corea del Sud, povera di materie prime (per ironia della sorte concentrate tutte al Nord), deve obbligatoriamente esportare, per poter finanziare le importazioni strategiche (petrolio e minerali). Per raggiungere questo obiettivo, la dittatura militare garantiva in più agli industriali la piena pace sindacale nelle fabbriche, dove le condizioni dei lavoratori erano (e sono, in parte, tuttora) al livello più basso nel quadro mondiale, senza alcuna garanzia, con orari di lavoro fuori da ogni controllo e salari al minimo. Solo nel 2018 il Parlamento di Seoul ha votato la legge che ha ridotto l’orario massimo di lavoro da 68 a 52 ore settimanali (anche se resta da verificare, ancora oggi, la reale applicazione nelle singole realtà produttive). Nonostante gli squilibri, la feroce repressione e l’abolizione di ogni parvenza di democrazia, questo progetto ha portato la Corea nel novero delle nazioni più industrializzate del mondo, in quello che è stato definito il Miracolo del fiume Han (fiume che attraversa Seoul).

Laureato alla prestigiosa Università nipponica Waseda, Lee Kun-hee, prese il comando della Samsung alla morte del padre (Lee Byung-chull) nel 1987: da una semplice trading che esportava frutta e pesci essiccati, l’ha trasformata  in vent’anni in un gigante industriale, con posizioni di assoluta leadership a livello mondiale nei settori della tv e degli elettrodomestici bianchi, della telefonia mobile e dei semiconduttori, oltre che a posizionarla a livelli di primaria importanza nella cantieristica navale, nei grandi lavori e nelle assicurazioni. Non senza diversi problemi, in particolare giudiziari. Lee Kung-hee è  stato per due volte condannato per corruzione – motivo per il quale ha dovuto lasciare temporaneamente la presidenza della Samsung Electronics – ma tutte e due le volte è stato graziato da due diversi Presidenti della Repubblica, salvo scoprire, nel secondo caso, che chi era stato corrotto da Lee era proprio il Presidente della Repubblica.

Il funerale – cui tra l’altro non ha partecipato l’attuale Presidente della Repubblica, il democratico Moon Jae-in, proprio per sottolineare il distanziamento del governo in carica dal mondo dei chaebol – ha avviato ufficialmente la procedura di successione alla guida del gruppo, ma ha anche aperto la strada a quattro possibili scenari, tutti complessi e negativi per la Samsung e, dato il peso che essa ricopre nell’economia nazionale, anche per la Corea.

  1. Gli eredi di Lee Kun-hee dovranno pagare una tassa di successione di poco più di 10 miliardi di dollari. Una cifra cospicua, che inevitabilmente peserà nei rapporti tra i soggetti coinvolti, perché favorisce chi poi sarà al comando del gruppo, sfavorendo gli esclusi, in questo caso le escluse, trattandosi delle due figlie rimaste (la terza è morta suicida a ventisei anni nel 2005) e incidendo pesantemente non solo sui patrimoni personali, ma anche sul gruppo.
  2. Proprio per questo, gli analisti danno quasi per certo che le figlie di Lee Kun-hee – che oggi gestiscono, una, la parte turistico-alberghiera del gruppo (hotel di lusso) e, l’altra, la prestigiosa e ricca Fondazione Samsung – escano dall’accordo di famiglia, pretendendo, però, ciò che loro spetta. Si ripresenta, poco più di trent’anni dopo, la stessa situazione del 1987, quando il padre di Kun-hee lo designò alla presidenza, pur essendo il minore dei suoi tre figli. Gli altri due presero quel che gli spettava e si misero in proprio, anche se il contenzioso giudiziario è durato fino a pochi anni fa. Ma la situazione esterna oggi non è più favorevole ai chaebol come allora.
  3. Nei prossimi mesi dovrà essere risolto il problema della nomina del nuovo presidente della Samsung Electronics (mancando una holding, chi presiede la società più importante del gruppo ne controlla tutta l’attività). Attualmente agisce come tale il figlio maschio, Lee Jae-jong, pur avendo ufficialmente solo la carica di vicepresidente. Una situazione impropria, sostenibile finché Lee Kun-hee era in vita, seppure vegetativa, ma non più ora. Il problema è che Jae-jong, nella migliore tradizione di famiglia, è sotto processo per acquisizioni illecite e frode. Ed è quasi certo che verrà condannato e arrestato. Già nel 2017-18 aveva scontato un periodo di carcere, essendo stato condannato per corruzione dell’allora Presidente della Repubblica, Park Guen-hye (figlia del generale golpista, poi destituita dalla Presidenza e quindi condannata a 24 anni di prigione).
  4. Il quarto scenario, il più terribile, è che tutte queste cose avvengano contemporaneamente, con un effetto domino devastante.

Tutto ciò si sta concretizzando in un contesto economico in Sud Corea tutt’altro che roseo, almeno secondo gli standard locali.

Il Paese ha affrontato la pandemia Covid con apparente intelligenza: oggi i casi totali sono solamente 27 mila e i morti complessivi appena 474. Numeri che molti Paesi occidentali registrano, da settimane, in un solo giorno. Una situazione ideale, quindi, per mantenere inalterati i livelli di attività economica. Con scarsi risultati, però. Il Governo ha immesso nel sistema quasi 60 miliardi di dollari di liquidità, ma la contrazione della domanda globale ha inciso pesantemente sull’export, che solo nel terzo trimestre dell’anno è tornato a crescere del 15,6%, trainato dalle vendite di automobili e semiconduttori. Ciò non è bastato, tuttavia, ad impedire che il PIL a fine settembre 2020 subisse una contrazione dell’1,3% sull’anno precedente.

La nuova ondata mondiale della pandemia non depone a favore, anche perché la Corea del Sud deve combattere, prima del Covid-19,  un virus più forte e letale: la corruzione interna.

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