Cantami o Diva

Un tipografo poeta

Chi era Pompeo Bettini

Se non fosse stato per la pervicacia di Benedetto Croce, l’opera poetica di Pompeo Bettini (1862-1896) sarebbe caduta nel vuoto ed egli sarebbe rimasto, per la storia con la esse minuscola, un oscuro correttore di bozze, sconosciuto al mondo come poeta e come intellettuale. Anche il tentativo della madre, dettato più dall’amore materno che da altro, di pubblicare postume le sue poesie, fallì miseramente: le quattrocento copie stampate a spese della famiglia andarono tutte invendute.

Eppure, Bettini aveva pubblicato negli anni il romanzo La toga del diavolo e Versi e acquerelli, e su riviste diverse (Farfalla, Vita moderna, Critica sociale, Lotta di classe) non solo sue poesie, ma anche note di critica letteraria, nonché, prima su Lotta di classe e poi in volume (che ebbe ampia diffusione), la prima traduzione integrale dal tedesco del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Socialista convinto e militante, fu amico di Filippo Turati, che ricordò il poeta in un commosso e fraterno articolo, in cui testimoniava tutta la sua stima.

“Pochi uomini – scrisse Turati –, quanto costui, parlarono da scettici e vissero da credenti di un’idea superiore. La sua gracilità fisica, la sua sensibilità nervosa, ne avrebbero fatto un querimonioso imitatore del Leopardi, cui somigliava nelle fattezze e nella dolcezza triste della espressione. Più fortunato del recanatese […] egli poté deviare quel fiotto di amarezze, fondamentale al suo spirito, incanalandolo nei campi fecondi della lotta sociale. […] Egli fu nostro poeta.”

Nonostante tutto questo, anche un critico attento come Croce non conosceva, ormai agli inizi del ‘900, il nome e l’opera di Pompeo Bettini. Ma quando, nel 1904, Olindo Malagodi, suo intimo amico e giornalista, che aveva avuto occasione di conoscere in vita Bettini, gli suggerì la lettura del poeta-tipografo, Croce ne scoprì il valore e l’autenticità espressiva. Sette anni dopo, scrisse un saggio sulla rivista Critica, per richiamare l’attenzione – almeno degli addetti ai lavori – sull’opera del Poeta. Tuttavia, non solo nessuno accettò l’invito, ma anzi egli fu attaccato da “qualche cerrenatesco rappresentante della letteratura di allora” (così, letteralmente, Croce), che lo accusò di essere sceso molto in basso nella sua attività di critico letterario. Pochi consensi, molte critiche, quindi. Ma nel 1942 Croce torna alla carica: in piena Seconda Guerra mondiale, sfidando il regime fascista, ammaccato ma ancora imperante, pubblica Le Poesie di Pompeo Bettini (Bari, Laterza).

“Perché mi è caro Bettini? – scrive Croce nell’ampia Introduzione – […] perché la sua è poesia necessaria, come sempre quella genuina.” E ancora, più avanti: “…(perché) non imita, non ammaestra, non geme e non impreca, non pompeggia nella virtuosità del dire…”

E se il verso a volte può sembrare imperfetto e la lingua suonare imprecisa alle orecchie dei puristi, ebbene sono, questi, marginali difetti, il prezzo minimo pagato dal Poeta per dare libero e pieno svolgimento alla sua poesia, necessaria e genuina, appunto.

Ma nella sua analisi Croce va oltre il Bettini-poeta, per analizzare il Bettini-intellettuale, quello delle valutazioni – a volte senza appello – dei poeti a lui contemporanei. In quelle posizioni critiche Croce si riconosce, e le approva: Rapisardi, che si poneva come cantore del mondo operaio, viene liquidato da Bettini come poeta senza originalità; o Arturo Graf, per il quale comunque mostra rispetto come versificatore, ma in presenza tuttavia di una nullità poetica; o Ada Negri, infine, di cui rileva la mancanza di ispirazione morale.

Croce apprezza la capacità del Poeta di aver mantenuto una sua identità di stile e di contenuto, senza piegarsi a mode o modelli, passando attraverso D’Annunzio ben prima dei poeti del nuovo secolo.

Minato nel fisico da numerose malattie, fino alla fatale meningite, che chiuse la sua vita a soli trentaquattro anni, e provato nello spirito dai molti e dolorosi lutti familiari, Pompeo Bettini ci ha lasciato un ‘canzoniere’ di settantanove liriche e due poemetti (La morta in montagna e Paolo, quest’ultimo ispirato al fratello, morto diciottenne) dalla struttura di rappresentazioni teatrali, in cui i molti cambiamenti di registro e di espressione, in un variare continuo di metrica e di ritmo, disegnano un percorso espressivo cautamente ma sostanzialmente innovativo. Soprattutto in Paolo i personaggi che intervengono sono molteplici e vari: la campana, il vento, la luna, la valle, la brezza, gli uccelli, che interagiscono con gli umani, in una corale (a volte pienamente riuscita) partecipazione lirica.

Come nota Gilberto Finzi (Lirici della scapigliatura, Mondadori, Milano, 1965) nei versi di Pompeo Bettini “spiritualismi scapigliati, irrazionalismo, sogno, già si trovano mescolati a istanze realiste, a nuova vena ‘civile’, e ancora a un pre-crepuscolarismo malinconico ma inconsapevole e non ironizzato”.

Ad esempio di questi esiti, si propone il sonetto Italia, tu produci ottime cose, che appartiene alla produzione più tarda del Poeta. Fu pubblicato per la prima volta nella Vita moderna del 30 luglio 1893.

Italia, tu produci ottime cose:
marmi pel genio, fiori per i morti,
nevi per l’Alpe, e cavoli per gli orti,
e venticelli per sfogliar le rose.

Ma tu produci pur genti cenciose
dalle man ladre e dai cervelli corti,
che s’accapiglian dentro gli angiporti
ed urlano bestemmie ingenerose.

Altrove, al suon di dollari e sterline,
romba il lavoro: qui, fin che si muoia,
vedrem le capre sulle tue ruine;
perché forse di noi stanca è l’istoria,

e il nostro vino non dà più la gioia
e il nostro sangue non dà più la gloria.

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